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Catania

Catania: messaggio di Pasqua dell’Arcivescovo Luigi Renna

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Carissimi fratelli e sorelle,

Buona Pasqua! Cosa augurarvi in questo Anno giubilare, se non la Speranza che scaturisce dal mistero che celebriamo? La auguriamo, con sentimenti fraterni a coloro che festeggiano la Pasqua nella stessa data, i cristiani Ortodossi e gli Ebrei, che celebrano il rito di Pesachin questi giorni! Che la Pasqua sia generatrice di riconciliazione e pace per i tanti popoli prostrati da inutili stragi!

Il contrario della fede non è solo l’ateismo, che da tanti viene vissuto con rispetto di chi crede e con l’impegno per tanti valori che edificano l’umanità; il contrario più temibile della fede è la rassegnazione, che non sa scorgere più il volto di Dio e la strada aperta al futuro e all’eternità tracciate dalla Risurrezione.

Papa Francesco, in questi mesi in cui “ha lottato” con la malattia, nella sua autobiografia intitolata “Spera”, ci scrive: «Siatene certi, la realtà più profonda, più lieta, più bella, per noi stessi, per chi amiamo, deve ancora arrivare». Perché questo sguardo pieno di fiducia? Perché egli ci sta “rendendo conto” della sua fede in Cristo Risorto: è il “rendiconto” che siamo chiamati a fare ogni giorno, in cui verifichiamo se il “capitale” di fede che coltiviamo sta fruttando, oppure ha subito dei colpi di “inflazione” dalle “borse” condizionate dai profeti di sventura

La speranza cristiana si situa “tra chiamata di Dio e domanda degli uomini: è una responsabilità duplice ed unica al tempo stesso, come il comando di amare Dio e il prossimo è duplice ed unico al tempo stesso” (Luciano Manicardi).

La Pasqua è più grande di ogni sogno di immortalità che abita tutte le religioni apparse sulla faccia della terra, perché si misura con la morte del Figlio di Dio: Cristo va incontro alla croce, non la rimuove dal suo cammino, la affronta con fiducia in Dio, ma soprattutto con l’amore di chi dona la vita anche di fronte a chi gli usa violenza. Sulla croce dice solo parole che “sanno di futuro”, non di rancore: “Padre, perdona loro…; oggi sarai con me in paradiso; ecco tuo Figlio, ecco tua madre;

nelle tue mani, affido il mio spirito”. E anche quando ci sembra “disperato”, trasforma in preghiera le sue domande, rivolte a un “Tu” a cui gridarle: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”.

E dopo tre giorni risorge e torna a ridare speranza: con la sua presenza, con la sorpresa che suscita, con il saluto di pace, con lo Spirito che ridona per “riplasmare” quel “corpo disfatto” che erano i suoi discepoli, con la missione affidata agli apostoli. Tutta questa novità di vita passa attraverso le sue piaghe che rimangono impresse come un sigillo d’amore sul suo corpo risorto. A Tommaso, a ciascuno di noi che è tentato di non credere e di non sperare, Cristo dice: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente». (Gv 20,27).

Metti le tue cadute di speranze e di amore nelle ferite di Cristo e sentirai che quella carne palpita di amore, ti conferma che vale la pena soffrire per sperare, pagare con il sangue il prezzo dell’amore, faticare per costruire la giustizia, la pace e ogni bene di cui ha bisogno l’umanità.

Guardiamo a quelle piaghe da cui è uscito sangue a fiotti, ed ora vediamo scaturirne la speranza. «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20, 29b); ma anche: «Beati quelli che pur non avendo visto, spereranno.» Crediamo che Egli è presente nella storia dell’umanità, in ogni storia personale, e ci porta oltre le nostre piccole vite parlandoci di vita eterna, di risurrezione, di nuova creazione.

Questa speranza, che sgorga dalle ferite del Risorto, è un dono da portare urgentemente nel mondo: è il regalo più grande che i cristiani possono fare all’umanità, e si traduce sempre in amore.

«Questa speranza non deve essere vana né proclamata soltanto a parole, bensì deve essere rivelata dai fatti, in modo che semmai ci dovessero capitare infermità, persecuzioni, perdite, lutti e oltraggi, possiamo trovare consolazione da tutte queste minacce e prepotenze del secolo presente nella speranza delle promesse eterne» (S. Ilario di Poitiers)

Sperare, mentre il mondo sembra sprofondare nell’egoismo nazionalista di una guerra economica che escluderà dal benessere interi popoli: sperare è impegnarsi per la giustizia. Sperare che chi ama non usi più violenza alla sua compagna, è impegnarsi ad educare i sentimenti dei giovani e degli uomini maturi. Sperare che la nostra economia non naufraghi, che la nostra politica mantenga alti livelli di moralità, che le nostre città siano comunità e non agglomerati di “centro” con periferie, è educare alla cittadinanza e partecipare alla vita delle nostre comunità. Sperare che il “crack” e la droga non siano l’illusoria speranza di tanti, è impegnarsi a combatterli a prevenire.

Sperare è la scelta di chi a Pasqua incontra come San Tommaso le piaghe del Risorto, e si lascia guarire da esse, perché riacquista fiducia nell’amore senza misura di Dio, sente che vale la pena “renderne conto” ad un mondo pieno di paure!

Vi abbraccio e vi benedico tutti

Vostro,

Don Luigi